München Marathon: Metti una sera a cena.
Metti una sera a cena.
Metti una comitiva eterogenea, una città straniera ma non troppo, metti una direttrice di sala, ma che dico una direttrice, un direttore di sala… non proprio… metti un trans come direttore di sala.
Metti un uomo di potere, baffuto, brizzolato, sassolese e dall’idioma incomprensibile. Metti un cameriere femmineo, diversamente uomo. Metti un tavolo accanto alla nostra comitiva, un uomo in là negli anni e una giovane donna affascinante.
Metti che tutto inizi con un “ciao giuggiola!”, agita tutto per bene e otterrai la nostra cena dei cretini.
L’atmosfera è quella che ti puoi aspettare in un ristorante italiano in terra tedesca, il menù è ironico come solo i tedeschi che parlano di cucina italiana sanno essere. Il mogano abbraccia un po’ tutto, la luce è soffusa. Sillabe gutturali, dure e sussurrate fanno da sottofondo. Tutti siedono al tavolo composti con facce interessate a quanto il rispettivo commensale dice. La coppia, formata dall’elegante signore sulla settantina, in abito bavarese con gilè a orli ricamati, capelli argento e postura perfetta, la giovane e snella ragazza dalle mani sottili e il profumo seducente rende tutto molto glamour, insomma manca solo Derrick.
E la nostra comitiva.
Appena arriviamo il volume della serata si alza di quaranta decibel. “Uniamo questi tavoli” “prendi una sedia di la” “ahahaha… “ “che fame! Dove sono i grissini?”
Una classe quinta istituto professionale passerebbe più inosservata.
Il trans comincia a guardarci male, vorrebbe graffiarci tutti con le sue unghie finte appena rifatte, ed è proprio per questo che non lo fa. L’esperienza le insegna che la situazione è grave, sbuffa furiosa pestando un po’ i piedi e poi ci affida alle sapienti mani del suo uomo migliore… uomo…
Con il silicone delle labbra che vibra di un fremito non del tutto trattenuto ci sguinzaglia il suo mastino, un ometto dalla testa sferica e gli acuti poderosi.
Il mastino punta il mento in su, fa una giravolta nemmeno avesse la chioma fluente di Gilda e accetta la sfida.
Da parte nostra schieriamo un’altra testa pelata, l’acuto è meno forte ma la parlantina inesauribile. Vorrei fermarlo in qualunque modo, ma non è possibile. La sua compagna sembra divertirsi, anche dopo che sono passati cinque minuti! ride e ride e ride. Io decido di bere per verificare se con dell’alcool in corpo pare divertente anche a me, ma scoprirò che a renderlo divertente è solo un particolare e rarissimo ormone femminile.
Avremmo anche altre armi, segrete. Segrete per tutti perché non le abbiamo mai viste, amici di qualcuno, di Modena, che dormono nel nostro albergo, che sono della nostra comitiva, che non si sa che sono venute a fare (ammortizzare le spese di viaggio per me!) e che compaiono solo un attimo a cena e poi tornano a sparire…
Uno di loro sfortunatamente non sparisce con la stessa costanza degli altri. Tale Riccardo. L’uomo in questione è di natura incerta, rossiccio per quel che si può vedere in quanto è quasi pelato pure lui. Non è dotato di favella ma ha imparato a esprimersi imitando le onde sonore prodotte dalle sillabe strascicate da Vasco mentre canta, tipo ehhhhhh…. L’effetto è quello di trovarsi di fronte a un essere perennemente ubriaco o fatto, ride e non si capisce sempre il perché. Lo odio da subito e lo odierò ancor di più verso la fine del week end. Comunque sia ci sta che sia qui, siamo nella patria della birra sarà venuto a tracannare come il meno celebre (a Sassuolo) Homer Simpson. E invece no! L’essere corre. Non inciampica di continuo, ma corre! Non striscia da sotto il bancone, corre!! Non barcolla sino al bagno, ma avanza compiendo i gesti della corsa!!! e va pure forte. La cosa mi distruggerà nell’intimo, lo ammetto, così insisto nel bere per dimenticare e pace alla maratona!
Il tempo, cos’è il tempo? Senza voler fare filosofia spiccia si può affermare che sia un concetto relativo, probabilmente maggiormente avvertito nel suo incedere quanto più affilata è la dotazione dei baffi di cui si è muniti.
Onestamente non mi sembra ne sia passato tanto da quando siamo seduti al tavolo, certo si è già sparsa la voce sull’affaire “ciao giuggiola” che è stata la miccia della serata: protagonisti il mastino e Ric che era già uscito provato dal saluto baritonale della “direttrice” di sala.
Tutti ridono, si sente “giuggiola” “giuggiola” “giuggiola” che rimbalza da una parte all’altra del tavolo tra risate sempre meno contenute; lo sguardo del mastino che già fende l’aria come frecce scoccate da un uomo in leggings! In tutto ciò un lieve ma crescente borbottio si insinua nelle orecchie di tutti.
La situazione è indescrivibile, il diavolo ci mette la coda.
Al tavolo siamo gente più o meno normale, con una sensibilità che, azzardo, è superiore alla media degli italiani all’estero, cavolo abbiamo sempre pagato la metro! E non ci sono nemmeno i tornelli!!
Sta di fatto che ogni qualvolta qualcuno si spinge un po’ oltre, che qualche battuta non proprio riuscita sugli omosessuali questa si elevi prorompente sull’elegante compostezza del resto del locale e il mastino sia in zona e senta. La sua bella testa di giottiana memoria diventa sempre più rossa, le frecce sibilano tra noi. Nascondo la faccia nelle mani, fingendo una stanchezza che non ho. Qualcuno conosce solo l’episodio “giuggiola” ma non i protagonisti, o meglio la protagonista, perché Ric è per tutti ormai è giuggiola!, quindi via di battute che diventano sempre più pesanti, sempre alla presenza del mastino, e risa, grasse risate, sguaiate risate… tranne un borbottio costante, indecifrabile che sale.
Mastino, ormai rosso mattone, un po’ schizzato, come una scheggia impazzita da un tavolo a un altro è da noi. Armato di penna e blocco-note ci guarda con disprezzo, con voce ferma ma acuta e mossette da prima donna in una serata da avanspettacolo ci chiede cosa dannazione vogliamo. Ordiniamo, il bere… il borbottio cala un po’… siamo pronti anche per il cibo, ma la vendetta del mastino inizia in quel preciso momento, “nooo! Prima vi porto da bere!!!” e sculetta via. Attimo di silenzio, il borbottio si interrompe e poi ricomincia, più forte, deciso, irruento.
Il trans-direttore-direttrice di sala ci porta le bevande. Il suo vocione suscita ancora più ilarità, specie in chi, come me, Ric ed Emanuele, non aveva avuto già un incontro tè-à-tèt con i suoi zigomi gentili. Solite battute, spalle contro il muro, Ric dovrà pagare il conto, in natura!, “ah ah ah”, e questo borbottio che non smette… continua… imperterrito…. Tommy, anche noto come l’uomo 3’20”alkm, con una risatina impertinente e lo sguardo di chi pensa “perché non vivacizzare la serata?” chiede “Pres. Tutto apposto?”
Silenzio. Sguardi che si concentrano su un punto, anche il borbottio è finito.
Il Pres. paonazzo inizia a sputare parole (sono parole?) che veloci si accavallano, tutti lo guardiamo, si muove scompostamente e quei suoni non smettono, ma sì! Sono parole!! incomprensibili concetti espressi in sassolese del diciassettesimo secolo obiettano qualcosa sul tempo trascorso ad attendere non si bene cosa non si sa bene perché, prende il suo piumino senza maniche lo sbatte un po’, sarà il punto più alto della virilità italica da noi rappresentata qui a Munchen, si alza e va via concludendo con qualcosa che suona più o meno “iononmifaccioprendereperilculoqui” che per onestà intellettuale devo ammettere è un’affermazione che condivido a pieno e mi pare quanto mai azzeccata vista la situazione, ma a cosa si riferiva di preciso?
Uscito il presidente gli sguardi, perso il punto di messa a fuoco, si dileguano in giro. Io bevo un sorso di birra, altri provano a far finta di nulla, la first lady (moglie del Pres.) fa spallucce, 3’20”al km man finge dispiacere per aver provocato tutto ciò, ma il suo sorriso mal celato tradisce ben altri sentimenti.
Privi della nostra guida ci troviamo alla mercé del mastino. La sua vendetta, con pochissima originalità, è un piatto che serve freddo, nella fattispecie pane che non ci vogliono dare, neanche pagando! “e io cosa do agli altri clienti…” dice agitando la mano con angoli di inclinazione del polso che non credevo possibili. Ci viene negato anche lo strudel “è ristorante italiano questooooooo!! ufff…” ci dice stringendo le labbra a culo di gallina (Camilleri). Ristorante italiano? Parliamone!
Il tempo di un’altra birra, giuggiola/Ric che viene vessato come ai tempi del militare, ci manca poco che gli si faccia fare il jukebox, ma non fa una piega. Si paga ci si separa, ci si da appuntamento a orari sbagliati e via in camera, la cena dei cretini finisce qua mentre l’elegante signore sbottona il suo più bel gilè e finalmente si rilassa sulla sedia.
Il cuscino è scomodo, non prendo sonno, non è ansia. Emanuele che mi dorme vicino è fermo immobile, mi dico “visto com’è cominciata la serata è il meglio che posso aspettarmi”. Mi giro, penso (e spero) a Ric solo e mi chiedo: ma i cretini chi sono?
La notte non passa velocemente, mi sveglio di continuo. Il cuscino, tipico del nord, è un nemico duro da vincere, nemmeno la stanchezza di una giornata iniziata alle cinque, cinque ore e passa di viaggio, l’attesa degli altri che come gente venuta su dal meridione con le loro valigie di cartone è riuscita a giungere all’albergo solo grazie a un cugino di un paesano che lavora in una pizzeria di uno stronzo del nord… ok roba da altri tempi, nemmeno il pomeriggio a camminare senza costrutto per Monaco di Baviera, nemmeno il villaggio della maratona con il suo caldo e i suoi articoli per nulla interessanti, nemmeno… …
Emanuele mi sveglia, dice qualcosa, non capisco, ma so che devo svegliarmi. In cuor mio so anche che è già tardi, che l’appuntamento a cui il giorno prima abbiamo aderito è palesemente errato, non avremo tempo per prepararci in modo decente, dovremo correre prima di aver iniziato la maratona. Quando siamo ormai sotto il plexiglas del bellissimo Olympiastadion è il momento di abbandonare la compagnia, in fondo ci siamo fatti trascinare nel ritardo di chi farà solo 10 km, o la staffetta, o proverà a chiudere la maratona in oltre 4 ore!
Via, non è più tempo per scherzare.
Col quel poco di tempo rimasto Emanuele, Ric e io facciamo quasi tutto il necessario, poi corriamo verso la partenza. Non è scaldarsi è bruciare glicogeno, frustare i muscoli prima di iniziare, caricarsi di ansia. Arriviamo, ci tocca scavalcare le transenne e mentre lo facciamo danno la prima partenza, la nostra. Perdo subito Ric, Emanuele invece non perderà mai me.
Non è iniziata bene, lo sento, e trovarmi in mezzo a gente in tuta, con felpe di cappuccio munito e calato sulla testa, cartucciere di gel e chissà cos’altro è solo l’ennesimo segnale della nostra pessima organizzazione.
Si parte, in mezzo alla ressa di chi procede a passettini, abbiamo davanti gente travestita da frutti o bottiglie di birra o prodotti dopanti… assurdo!
I primi chilometri sono il solito zig zag che non serve a molto, innervosisce solo le gambe, fa scappar via il ritmo, stanca la testa. Per fortuna dopo tre chilometri si entra in un grande viale, bellissimo, assolato con in fondo la porta più maestosa della città (….thor, non sono preparato accidenti!), i suoi leoni ruggenti che ci spingono a dare il massimo, e, infatti, quei duemila metri li corriamo a 4’20”, non si corre così una maratona, proprio no. Uno striscione ci dice che siamo degli eroi e, in fondo, tutti ci sentiamo tali. Tutti quanti, ma quanti siamo? abbiamo tantissima gente davanti a noi, la gran parte corre piano, e faccio fatica a capire se vado forte o piano o non so… Ric l’abbiamo ripreso intorno al terzo, mi pareva concentrato e tranquillo, bene.
Emanuele mi è sempre vicino, facciamo delle foto, parliamo con tutti gli italiani che riconosciamo. È la mia prima maratona in terra straniera, vorrei esserci arrivato meglio, invece quando siamo nell’Englischer Garten e i chilometri in discesa e veloci sono alle spalle so che sarà fatica che sale, prende alle gambe, chiude lo stomaco, annebbia la mente, abbatte la volontà…
La maratona è una gara strana, lunga, questa lunghezza così estrema sembra quasi accorciare ogni singolo chilometro. È una gara strana, è strano come diluisce il tempo e lo spazio, un filo aggrovigliato, è inutile cercare l’altro capo devi percorrerlo meno piano che riesci e così i metri si sovrappongono ad altri metri, i minuti diventano quasi trascurabili, il decimo km è poca cosa, la luce è lontana, ma il buio non ti pare poi tanto brutto, è proprio strana la maratona, così lunga e pure così corta, tre ore, o quello che ci vuole, tra le più veloci che ti può capitare di vivere.
E adesso, a distanza di quasi un mese, non so dire al dodicesimo cosa pensassi. Se al diciannovesimo fossi in salita o in discesa, se avessi già mangiato uno dei tanti pezzi di banana ingurgitati avanzando; cosa mi passasse negli occhi al ventisettesimo, al trentacinque c’era di certo tanta stanchezza, al trentasette andavo avanti con risorse che non sapevo nemmeno di avere, ma quali? Non so spiegarlo. Raccontare una maratona è esercizio difficile per chi è mediocre corridore e fa ancora più fatica a correre dietro le parole nere in fila come i chilometri sulla pagina bianca di asfalto.
Qualche istantanea mi è rimasta per fortuna, il passaggio sotto il Neues Rathaus è bellissimo, le guglie e le finestre che si affacciano su Marienplatz sembrano aspettarti, ma sono li da centinaia di anni e altri ancora, i doccioni che si sporgono dall’alto, la gente, la musica dei tanti complessi lungo il tracciato. Bello! Poi tornare sul viale dei leoni ruggenti, e lo striscione ancora la, Eroi, beh forse lo siamo sul serio… migliaia di bicchierini calpestati, la gente ci applaude, una ragazza è lanciata in cielo con i suoi pon pon e poi viene ripresa sorridente, e non pensi alle gambe, agli oltre sette chilometri che ti separano dalla quiete, antitesi di questo moto che adesso fa male. E via avanzare… io, Emanuele, Hans che voleva stare insieme a noi e poi ci ha dato più di otto minuti, Ric da qualche parte, la bottiglia di birra, altra gente, che va più o meno forte, più o meno giovane. Applausi sinceri, un calore che in queste situazioni ti spiazza per quanto è nuovo, ma non eravamo noi il popolo caldo? Che piacere che fanno questi sorrisi sotto zazzere bionde, dietro mani frenetiche che scandiscono il ritmo di una banda di tamburi o dei miei passi. Sono passati diversi giorni e visto da lontano quel crogiolo di persone, suoni, colori mi sembra sempre più un massa indistinta che io avvilisco con queste mie solite e usate parole, mentre invece si potrebbe dire… … a chi si trova un mattino in mezzo ad Anastasia i desideri si risvegliano tutti insieme e ti circondano. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento. Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice: se per otto ore tu lavori come tagliatore d’agate onici crisopazi, la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo. Così Calvino fa descrive al giovane Marco Polo una delle sue Città invisibili che a me tanto ricordano Monaco in quella mattina per quello che prende e per ciò che ti restituisce o, pensi ti restituisca.
La strada che mi sembra salire ad ogni metro, tanto che se fosse vero dovrei essere almeno sullo Zugspitze!, spiana solo quando entriamo di nuovo nel parco olimpico. Olimpico sì, qui è bruciata la fiamma dei giochi, mi piace pensare che sia la stessa che brucia da più di cento anni e che ho visto passare quasi trentacinque anni dopo esser stata qua in Piazza Grande a Modena diretta verso Torino.
Questo il luogo della tragedia della squadra Israeliana di Monaco ’72, di Settembre Nero e del terrorismo, una tragedia tanto grande che dei risultati di quei Giochi è rimasto nella mente solo i sette, dico sette, ori di Spitz, poi Monaco ’72 è sangue, spari, una diretta televisiva che mette ancora i brividi, e io sono qua, giusto quarantanni dopo con queste gambe stanche, la testa leggera e un’energia bellissima che mi sale da dentro quando sento la musica che giunge dallo stadio, la gente che urla di gioia e aspetta me, anche me!
Entrare nello stadio Olimpico davvero mi ripaga di tutta la fatica, del risultato non proprio bellissimo, di tutto… usciamo dal tunnel, ci lasciamo dietro la musica a palla e il buio ed entriamo nella luce e nelle grida di chi aspetta altri, urlano anche a noi la nostra comitiva, agito pollice e mignolo, potrebbe essere diverso?, e accelerò fin dove le mie forze mi consentono permettendomi di godere comunque del mio più bel arrivo di sempre e pace per quel “così-così” 3h 26’39”, voglio solo guardarmi attorno, respirare quest’aria buona, riempirmi gli occhi di tutto questo verde, abbracciare Emanuele, bere un paio di birre e aspettare Ric e saperr della sua Anastasia, maligna o benigna che sia.